La crisi ha aumentato la disuguaglianza e ha impoverito le famiglie.
Detto questo, non amiamo le tasse se non quelle sulla rendita:
le persone che lavorano sodo non devono ritrovarsi in una situazione
peggiore che le persone per le quali lavora il proprio patrimonio.
Sostenere i redditi della classe media e di chi è ai margini del mercato
del lavoro deve rimanere una priorità del Partito Democratico.
Immaginiamo un mercato del lavoro flessibile in cui lo Stato e le imprese
gestiscono i costi della mobilità e dove si difende il lavoratore, non necessariamente
il posto di lavoro. Il Jobs Act è stata una riforma necessaria del nostro mercato del lavoro, per combattere il precariato di milioni di giovani lavoratori grazie al contratto unico, all’introduzione del NASPI e all’estensione dei diritti a nuove categorie di lavoratori finora esclusi. Crediamo tuttavia che la riforma sia incompleta e che, oltre alla riforma dei meccanismi di collocamento e re-inserimento (proposta Ichino), sia necessaria l’introduzione di un salario minimo nazionale per tutelare i lavoratori esclusi dai contratti nazionali collettivi, circa il 20% del totale (i CCN coprono direttamente il 60% dei lavoratori e grazie all’articolo 36 della costituzione un altro 20% per estensione, secondo dati ISTAT). Ma soprattutto, in un paese come il nostro, con salari talmente depressi, un salario minimo potrebbe rilanciare l’occupazione grazie ai maggiori incentivi della partecipazione al mercato del lavoro. E’ quello che avvenne nel Regno Unito quando i laburisti lo introdussero nel 1997. Per un paese come il nostro che intende muoversi verso il modello della concertazione decentralizzata per le proprie relazioni industriali, un salario minimo rafforzerebbe il potere contrattuale dei lavoratori, a fronte dell’attuale vuoto di rappresentanza sindacale, specie per le categorie più vulnerabili (precari, giovani e stranieri). L’Italia soffre di livelli di occupazione troppo bassi, specie quella femminile, mentre l’incapienza dilaga. Per farvi fronte sarebbe anche opportuno introdurre ‘l’imposta negativa’, ovvero l’erogazione di un trasferimento pari alla detrazione IRPEF spettante ma non goduta, questo permetterebbe di evitare l’impoverimento dei lavoratori e li incoraggiarebbe a rimanere nel mercato del lavoro. Gli Stati Uniti con questo ammortizzatore hanno tirato fuori dalla povertà e portato nel mercato del lavoro oltre 4milioni di persone, una lezione interessante per un paese dove il sommerso dilaga. Non crediamo nell’idea del reddito minimo di cittadinanza incondizionato e universale, non solo perché non ce lo potremmo permettere, ma soprattutto perché il lavoro è un valore fondamentale. Il lavoro, inteso come contributo remunerato alla società sotto qualsiasi forma, è fonte di dignità e realizzazione personale. Detto questo, è necessario andare oltre il NASPI, l’indennizzo di disoccupazione introdotto con il Jobs Act, e introdurre un mezzo per sostenere il reddito di chi cerca lavoro ma non adempie ai requisiti contributivi e lavorativi come un reddito di solidarietà attiva collegato a programmi di reinserimento e comunque limitato nel tempo. Un altro tema fondamentale, è l’abbattimento del costo del lavoro attraverso la lotta all’evasione fiscale, che deve andare di pari passo con la riduzione della pressione fiscale, per rendere l’Italia competitiva a livello internazionale e allo stesso tempo migliorare il salario netto dei lavoratori, riconducendo fondi recuperati dalla lotta all’evasione.
Giustizia significa concentrarsi sugli ultimi senza opprimere i primi.
