di Edoardo Toniolatti
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Una delle domande che ci sentiamo rivolgere più spesso, soprattutto dopo il 4 dicembre, ha a che fare con un termine che compare non nello Statuto del Partito Democratico, ma nel suo Manifesto dei valori: la vocazione maggioritaria.
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Che senso ha – ci viene chiesto – insistere su questa fantomatica “vocazione maggioritaria”, ora che il risultato del referendum ci ha consegnato uno scenario sostanzialmente proporzionale? Che senso ha concentrarsi su un vago sogno maggioritario, quando invece nel quadro politico con cui dovremo confrontarci saranno decisivi gli accordi e le alleanze?
Vocazione maggioritaria

Ecco, secondo noi dietro queste domande si nasconde un equivoco. O meglio: si nasconde un’interpretazione errata, che legge la vocazione maggioritaria solo ed esclusivamente in termini di risultato elettorale, di ricerca del 51% e basta.
Vocazione maggioritaria, invece, significa molto di più, ed ha a che fare con un’autentica dimensione politica, di definizione di un obiettivo, di una visione del mondo, di un’identità.
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Rileggiamo le parole del Manifesto dei valori:
La vocazione maggioritaria del Partito Democratico, il suo proporsi come partito del Paese, come grande forza nazionale, si manifesta nel pensare se stesso, la propria identità e la propria politica, non già in termini di rappresentanza parziale di segmenti più o meno grandi della società, ma come proiezione della sua profonda aderenza alle articolazioni e alle autonomie civili, sociali e istituzionali proprie del pluralismo della storia italiana e della complessità della società contemporanea, in una visione più ampia dell’interesse generale e in una sintesi di governo, che sia in grado di dare adeguate risposte ai grandi problemi del presente e del futuro.
Parole di quasi dieci anni fa, ma che suonano attuali anche oggi – anzi, forse hanno ancora più valore.
Se c’è una cosa che, col passare del tempo, diventa sempre più evidente, è proprio che il concetto di “blocco sociale” è ormai entrato in crisi: viviamo una stratificazione sociale sempre più diffusa e sfaccettata, che rende le categorie su cui quel concetto era articolato inefficaci, imprecise, forse addirittura obsolete. Proporsi oggi come “partito dei lavoratori”, ad esempio, ha senso solo se comprendiamo quanto si sia espanso il mondo del lavoro, quanto ne facciano parte non più solo le categorie che colleghiamo tradizionalmente alla sinistra ma anche tantissimi altri soggetti, tutti ugualmente alla ricerca di sostegno, di difesa, di aiuto da parte di un partito che sia davvero progressista, e non solo a parole.
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Si tratta, secondo noi, di recuperare un passaggio decisivo con cui, nel suo discorso del Lingotto, Walter Veltroni descrisse nel 2007 l’ambiziosa sintesi su cui edificare la casa dei riformisti di sinistra: “un’identità che si definisce con la più grande conquista del Novecento: la coscienza che le comunità umane possono esistere e convivere solo con la libertà individuale e collettiva, con la piena libertà delle idee e la libertà di intraprendere. Con la libertà intrecciata alla giustizia sociale e all’irrinunciabile tensione all’uguaglianza degli individui, che oggi vuol dire garanzia delle stesse opportunità per ognuno.”
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Si tratta, dunque, di non rinunciare alla consapevolezza che il progresso è un percorso in cui si intrecciano inestricabilmente i diritti civili e i diritti sociali, la libertà di tutti e di ciascuno: di non rinunciare alla consapevolezza che “stare dalla parte degli ultimi”, il compito di ogni partito politico di sinistra, vuol dire innanzitutto fare tutto il possibile perché ultimi non lo siano più.
Vocazione maggioritaria, allora, significa per noi ribaltare l’interpretazione del concetto che abbiamo spesso visto all’opera in questi anni, e che temiamo possa affermarsi definitivamente se non ribadiamo quello che, secondo noi, è il vero senso del termine. Significa che il punto centrale è parlare con tutti, a tutti. Ma attenzione: non con i leader dei partiti, non con gli eletti – immaginando già, prima del voto, ipotetiche coalizioni o alleanze.
No: si tratta, prima e soprattutto, di parlare con tutti e a tutti gli elettori.