EU-Turkey deal un anno dopo: conseguenze, referendum turco e proposte per l’Europa
- Mina Zingariello
- 17. Apr. 2017
- 4 Min. Lesezeit

Poco più di un anno fa entrava in vigore l’EU-Turkey deal: un accordo in cui l’Unione Europea chiedeva alla Turchia di frenare gli arrivi di rifugiati dalla Siria. In cambio la Turchia poneva una serie di condizioni che includevano il reinvigorimento del processo di adesione all’Unione Europea, il libero accesso all’area Schengen e 6 miliardi di Euro.
La Siria contava poco più di 6 milioni di profughi che entravano in territorio europeo principalmente attraverso la Grecia. L’Unione Europea, continente da 500 milioni di persone e area più ricca del pianeta, non riusciva ad ammortizzarli, e definiva questo fenomeno “crisi”. Decideva quindi di limitare la circolazione di questi rifugiati ai Paesi limitrofi come la Turchia e il Libano, che già contavano sul proprio territorio rispettivamente 3 e 1 milione di Siriani, nel caso del Libano il 25% della propria popolazione. Cosa che andava ad aumentare la precarietà di equilibri in Paesi che viveno già su una polveriera.
Il deal creava però un’ulteriore conseguenza: da un lato un Presidente turco che diventava via via più autoritario e che imponeva un crescente deterioramento della libertà di espressione. Dall’altro un’Unione Europea fondata su libertà fondamentali e valori di pace e solidarietà che non riusciva ad accogliere un numero così irrilevante di rifugiati. Il compromesso rappresentato dal deal non poteva che essere letto come un endorsement alla Turchia di Erdogan, e una perdita di credibilità dell’Unione Europea.
Su richiesta dell’Italia sotto la presidenza di Matteo Renzi nel deal veniva inserito un esplicito riferimento ai diritti umani, alla libertà di stampa e quei valori fondanti dell'Europa. Matteo Renzi spiegava: “La nostra posizione era sì all'accordo, ma non a tutti i costi”.
Il deal ha funzionato. Su un totale di arrivi in Grecia di 173,450 persone nel 2016, ben 155,102 sono relative al Gennaio-Marzo 2016 e solo 18,348 sono arrivi successivi (Aprile-Dicembre 2016). Il trend viene mantenuto nel 2017: ad oggi l’Italia ha ricevuto 27,000 arrivi contro i 4,548 della Grecia.
Però il risultato al Referendum turco del 16 Aprile 2017 che permette al Presidente di rimanere in carica fino al 2029 e accentra ulteriormente i poteri nelle sue mani, mette ad ulteriore prova la credibilità di un patto tra Erdogan e l’Unione Europea. Unione che ha perso l’autorità morale per criticare Paesi terzi, soprattutto quelli che violano i diritti umani e con cui è scesa a compromessi per non affrontare le proprie responsabilità.
La domanda da chiedersi diventa quindi: ne è valsa la pena? E il deal ha affrontato la reale questione – l’accoglienza comunitaria dei rifugiati – o ha piuttosto gestito le conseguenze di una mancanza di approccio comunitario?
È ovvio che nella questione dei rifugiati il vero problema non sta negli arrivi ma nella mancanza di approccio comunitario, in una parola: nel ricollocamento. Infatti, la mancanza di adeguato ricollocamento sui territori nazionali prima ed europei poi di migranti/rifugiati può costituire problemi – reali o percepiti che siano – significativi. Basti pensare al caso di Tabiano Terme che ha accolto 117 profughi su un comune di 580 abitanti.
È necessario che tutti facciano la propria parte, a cominciare dai Paesi più benestanti, e quelli che fanno maggiormente uso dei fondi strutturali europei.
I Paesi che sono la porta dell’Europa sul Mediterraneo non possono essere lasciati a sè stessi nella gestione di un fenomeno globale. Per esempio, la quantità di domande di asilo ricevute dall’Italia negli ultimi 3 anni è aumentata esponenzialmente passando da 26 mila nel 2013 a 123 mila nel 2016 (a titolo comparativo nel Regno Unito il passaggio è stato da 22 a 34 mila in un periodo simile. D’altra parte la Germania è andata da 442 mila nel 2015 a 722 mila nel 2016).
Se altri Paesi meno esposti alle tratte del Mediterraneo non accettano di accogliere quote di rifugiati, allora il problema diventa soprattutto di giustiza ed equilibri interni. Soprattutto se sono Paesi che fanno un uso – legittimo – di fondi strutturali messi a disposizione dal budget europeo, ma che poi si rifutano di condividere il peso di soluzioni di problemi comuni.
In questo contesto si colloca la mozione #RenziMartina che chiede, e per molti versi ha già ottenuto, una risposta congiunta dell’Unione Europea alla gestione di questo fenomeno. E’ nell’allargamento dell’azione europea che risiede la soluzione di un fenomeno globale che se affrontato individualmente dagli Stati-Nazioni offre terreno fertile alle destre e ai populismi, ma gestito in modo olistico offre almeno 3 successi:
affermare principi e valori fondamentali e recupero di credibilità interna e internazionale,
produrre politiche di progressiva armonizzazione,
capacità di gestire fenomeni altamente complessi, invece che di subirli
Da questo punto di vista il 2017/2018 ci offre un’opportunità che si snoda su 4 punti fondamentali:
per la prima volta la Francia ha un candidato alla Presidenza – Macron – che corre con un profilo esplicitamente europeo,
il Regno Unito post Brexit non potrà più vetare qualsiasi proposta di ulteriore integrazione politica,
la Germania comincia a capire che politiche di austerity a tutti i costi incentivano risposte populiste,
l’Italia ha la possibilità di esprimere una leadership forte che intende mettere al centro del dibattito europeo politiche sociali e strategiche comuni.
L’Italia ha perso molte opportunità negli ultimi anni per mancanza di fiducia, mancanza di coraggio, mancanza di comunicazione adeguata; ne ha pagato e ne continuerà a pagare le conseguenze, come è giusto che sia in democrazia.
Ma una scelta diversa da quella di #RenziMartina in queste primarie in un contesto internazionale dominato da Donald Trump e Vladimir Putin avrà conseguenze che andranno ben oltre noi. Abbiamo l’opportunità di cambiare l’Europa, oltre che l’Italia. Da cittadini italiani-europei farsela scappare sarebbe imperdonabile.
























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