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Una crescita sostenibile

  • Marco Onorato
  • 23. Apr. 2017
  • 5 Min. Lesezeit

“Non si vuol comprendere che bisogna preparare la svolta senza che il carro si rovesci”: è questa una delle frasi più celebri con cui Alcide De Gasperi indicava il cammino che l’Italia avrebbe dovuto intraprendere alla fine della seconda guerra mondiale.

Si trattava, in quel caso, di uscire dal vecchio sistema in cui convivevano monarchia e fascismo per entrare in un orizzonte tutto nuovo, repubblicano e democratico.

Le sfide all’epoca erano molte, eppure l’Italia riuscì a trasformarsi da un paese relativamente povero ad uno dei maggiori paesi industrializzati del mondo.

Oggi la situazione appare completamente capovolta. Lo spirito d’iniziativa, l’audacia ed il desiderio di rivalsa contro gli anni bui della guerra hanno lasciato il posto alla paura, allo smarrimento. L’Italia sembra bloccata in una situazione di cronica immobilità. Una nuova Zora del ventunesimo secolo che, come la città invisibile di Italo Calvino, appare obbligata a restare immobile e uguale a se stessa per essere meglio ricordata. Nella storia Zora languì, si disfece e scomparve. E questo è l’inevitabile destino del nostro paese se non incominciamo a ripensare il sistema Italia.

Per tale motivo, oggi, la celebre frase degasperiana è più che mai attuale: se non si tiene conto del contesto nel quale ci muoviamo e se si deroga dal linguaggio della verità, il fragile carro della nuova Italia rischia davvero di ribaltarsi.

Andiamo per gradi. Dopo gli anni di galleggiamento totale che hanno portato l’Italia ad avere il terzo stock di debito più alto al mondo ed uno dei sistemi economici più corrotti dei paesi OCSE, è arrivata una piccola svolta nel modo di approcciare la cosa pubblica.

Per troppo tempo siamo stati abituati a pensare che l’Italia non potesse farcela, la c.d. Italietta, per intenderci. Il governo Renzi, invece, ha dimostrato che un’idea di Italia diversa é possibile: è così iniziata l’opera delle riforme strutturali. Certamente i problemi sono tanti, ma noi abbiamo tutti i mezzi e tutte le risorse per poterli affrontare.

I problemi italiani sono come una matassa di fili ingarbugliati: per poter sbrogliare la matassa occorre comprendere da dove inizia il filo, ed il bandolo della matassa, a mio modesto parere, è sicuramente la crescita. Non solo perché senza crescita non ci sono le risorse necessarie per poter finanziare la spesa pubblica, ossia garantire quei diritti sanciti dalla prima parte della Costituzione; ma soprattutto perché senza crescita l’elevato debito italiano non è sostenibile. Il livello di leverage, ossia l’ammontare di debito che uno stato può contrarre dipende in maniera indissolubile dalla crescita. La domanda, quindi, sorge spontanea: perché non cresciamo?

L’Italia esce alla fine della seconda guerra mondiale come un paese relativamente povero. In quegli anni la ricetta per crescere era abbastanza semplice : risparmio ed investimenti. Anche le imprese che avevano caratterizzato quell’epoca, passata alla storia come "il miracolo economico" erano imprese relativamente semplici : aziende tessili, acciaierie etc. fatta eccezione per alcuni settori come i polimeri che valsero il Nobel a Natta, oppure i computer di Olivetti. A quel tempo non era importante il grado di concorrenza presente nel mercato, né la velocita con cui la giustizia affrontava i processi, non era importante il livello d’istruzione o di ricerca, né le liberalizzazioni del mercato del lavoro.

Oggi l’accumulo di capitale all’interno di imprese tradizionali non basta più, non garantisce iù la crescita. Cosa è successo, dunque, in questi anni? Sicuramente è cambiata l’Italia, ma sopra ogni cosa è cambiato il mondo e con esso il modo di produrre.

Per i paesi che operano sulla frontiera della tecnologia, crescere significa innovare. E oggi abbiamo bisogno di immaginazione, di nuovi prodotti, di nuove tecnologie. In poche parole: abbiamo bisogno di idee nuove.

Nella storia industriale è possibile individuare precisi paradigmi tecnologici: l’epoca della macchina a vapore, il motore a scoppio, l’elettricità, la petrolchimica. L’Italia, sia pure con qualche affanno, nel corso degli anni è riuscita a sviluppare tutti questi diversi paradigmi tecnologici.

Oggi il paradigma tecnologico è nuovamente cambiato. Si è intrapresa l’era della micro-elettronica e delle telecomunicazioni ma il nostro sistema industriale non è stato ancora in grado di adattarsi al cambiamento. Al di là di molte altre spiegazioni, il declino strutturale della industria manifattura italiana trova origine da questo gap tecnologico.

La corsa della tecnologia è in questo momento troppo veloce per chi non si è mosso in tempo. Le grandi imprese italiane che potrebbero ancora essere competitive sono poche ed isolate a livello internazionale. Oggi bisogna pensare più a lungo termine in un’ottica di rinnovamento strutturale. Per ripartire, essenzialmente, l’Italia deve avere il coraggio di fare quattro cose.

Partiamo dall’analisi critica. La politica deve avere ben chiari quali settori potranno contribuire davvero allo sviluppo del paese, e deve sostenerli, anche finanziariamente, nel loro processo di internazionalizzazione e modernizzazione. Il principio guida dovrà essere ciò che Schumpeter definiva come “distruzione creatrice”: serve riconoscere che non tutte le imprese sono meritevoli di essere supportate alla stessa maniera, soprattutto se le risorse pubbliche sono scarse ed esiste un vincolo di bilancio.

La seconda operazione sarà definire il livello di competizione/concorrenza per quei settori individuati in precedenza. Il livello di concorrenza è estremamente importante: i soggetti che innovano sono principalmente le nuove imprese che al fine di entrare nel mercato devono proporre novità per sottrarre quote di mercato alle imprese già esistenti. Ma attenzione: non sempre maggiore concorrenza significa maggiore competitività e dunque maggiore efficienza, specialmente in industrie ad alta intensità di capitale dove contano la dimensione globale ed il presidio della domanda interna. Il diverso grado di concorrenza dovrà essere deciso da settore a settore.

In terzo luogo, l’Italia dovrà investire nel paradigma tecnologico di domani, sviluppando adesso la tecnologia che sarà industria domani. In merito a questo punto è molto interessante il Piano Industria 4.0 varato dal governo Renzi che per la prima volta da anni in Italia pone le basi per investimenti in tecnologia a medio e lungo termine.

Infine, dovremo spingere le imprese medie ad integrarsi tra loro e a capitalizzarsi, utilizzando tutte le leve fiscali disponibili. Solamente con dimensioni accresciute ed un solido patrimonio tecnologico le imprese italiane potranno diventare “strumenti attivi” di politica industriale.

Tutto ciò servirà a far ripartire gli investimenti privati e pubblici. Per uscire definitivamente dalla recessione dobbiamo concentrare la nostra attenzione sugli investimenti, dato che sui consumi ad oggi si può fare ben poco per stimolarli. Non a caso, il sostegno alla domanda di consumo non può avere successo poiché non è sufficiente per garantire una riduzione dell’incertezza sulle prospettive a medio termine della nostra economia.

I consumi interni aumentano per tre ragioni: crescita demografica (ricordiamo che l’Italia è da tempo stagnante), arrivo sul mercato di prodotti nuovi, fase economica di particolare benessere. Oggi non cresce la popolazione, né si vendono prodotti nuovi, né siamo nella fase alta del ciclo. Non a caso, gli sforzi del governo Renzi per abbassare le tasse in modo da poter dare maggiore potere al ceto medio, così da incrementare i consumi, hanno prodotto solo un aumento dello 0,1% della domanda interna.

Questo ci conferma che la strada per uscire da questa crisi sono gli investimenti.

In conclusione, c’è bisogno di una visione nuova e delle energie necessarie per dare un contenuto effettivo al cambiamento. Il problema italiano, caratterizzato da disoccupazione, debito pubblico etc., non si risolve attraverso una svalutazione competitiva, come sostenuto da alcuni politici. Il problema italiano è un problema di produttività e può essere risolto esclusivamente riformando il sistema economico.

Questo è il primo passo per ridare credibilità al nostro paese e dignità ai lavoratori italiani. Soltanto se riusciamo a creare ricchezza oggi, potremo avere giustizia sociale domani. Soltanto riequilibrando il nostro modello di produzione saremo in grado di fornire le risposte necessarie a chi è stato derubato del proprio futuro. La sinistra ha il dovere di restituire la speranza a chi non inorridisce più neanche di fronte al voto a favore di Trump.


 
 
 

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